Un’analisi del valore umano e agricolo nel tempo
Potrebbe sembrare anacronistico discutere oggi non solo dell’agricoltura, ma anche dell’umanità e dei valori che ancora possiedono un ruolo vitale e costruttivo nella nostra società.
Sebbene l’automazione e la meccanizzazione siano diventate pratiche comuni nella gestione delle operazioni, e l’intelligenza artificiale giochi un ruolo cruciale nella pianificazione e nell’esecuzione delle attività, il legame con la natura, il rispetto per i cicli stagionali, e la cura per la terra e per le piante rimangono elementi fondamentali, radicati in tradizioni antiche.
La rilevanza dell’agricoltura, che fino a circa settant’anni fa era centrale nell’economia e nella struttura sociale, è evidente. Nel 1961, ad esempio, quasi il 40% della forza lavoro era impiegata in quello che era noto come il settore primario. Con l’espansione economica e la crescita dei settori industriale e dei servizi, questa percentuale è diminuita rapidamente, scendendo al 10% nei primi anni ’80 e stabilizzandosi oggi tra il 3% e il 4%.
L’attività agricola moderna differisce notevolmente da quella di una volta, anche a causa di decisioni politiche e sociali come l’eliminazione della mezzadria e lo sviluppo di piccole e medie imprese agricole dirette.
Tuttavia, il passato ha ancora molto da insegnarci, anche se i ricordi di chi ha vissuto gli anni in cui i campi venivano arati con i buoi e le trebbiatrici erano manuali sono filtrati dalla nostalgia e dalle esperienze personali, influenzate dai grandi cambiamenti sociali e culturali.
Nel libro di Nino Smacchia, “La valle scomparsa” (Ed. Le Mezzelane, 150 pagine, € 15), l’autore narra le sue esperienze di adolescenza trascorse in un casolare nelle campagne di Acqualagna, nella provincia di Pesaro e Urbino, prima di trasferirsi a Milano per lavoro.
Il racconto dipinge un quadro vivido di un’epoca in cui la povertà si intrecciava con la dignità, e la famiglia patriarcale era fondata su solide lezioni di vita. Smacchia descrive con amore il lavoro nei campi del padre, un uomo che lavorava con passione, conosceva ogni angolo delle sue terre e godeva di una libertà invidiabile, una libertà e un piacere nel lavoro che avrebbe difeso con tutte le sue forze.
“Lasceresti tutta questa bellezza?” è la domanda che il padre pose all’autore, che espresse il desiderio di studiare e lasciare la vita rurale, un desiderio che poi realizzò.
Il libro illustra sia la magnificenza che il lento declino del mondo contadino tradizionale. La magnificenza risiede nel riconoscimento della bellezza della natura e nella semplicità profonda dei rapporti umani, mentre il declino è rappresentato dall’abbandono progressivo delle antiche abitazioni rurali.
È emblematico che la narrazione inizi con il ritrovamento di una fotografia, una foto di una festa di matrimonio in un podere, copertina del libro, che evoca una scena del film “Vermiglio”, un racconto di vita rurale durante la guerra che ha sfiorato l’Oscar. Due storie che si fondono nella narrazione della civiltà contadina, una dimensione che merita pienamente il titolo di “civiltà”.
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Alessandro Conti ha conseguito una laurea in ingegneria finanziaria presso il Politecnico di Torino, con una specializzazione in tecnologie finanziarie. Ha lavorato come consulente per diverse start-up fintech e istituzioni bancarie. La sua specializzazione riguarda la regolamentazione dei servizi di pagamento e l’implementazione di soluzioni conformi alle nuove normative europee, in particolare PSD2. Su ComplianceJournal.it, Alessandro condivide le sue conoscenze sulla digitalizzazione dei servizi finanziari e sui rischi emergenti legati alle innovazioni tecnologiche nel settore bancario.