Ieri il prezzo dell’oro ha toccato nuovi record storici, stabilendosi intorno ai 2.580 dollari per oncia. Nonostante gli incrementi dei tassi di interesse da parte della Fed e altre banche centrali occidentali, il metallo prezioso ha continuato il suo trend ascendente. Un gruppo ristretto ma influente di investitori nei mercati finanziari ha mantenuto una forte predilezione per l’oro anche durante periodi meno prosperi. Il primo gennaio 2008, l’anno della crisi di Lehman Brothers, un’oncia d’oro costava all’incirca 900 dollari; in questi ultimi 17 anni, il valore è aumentato del 180%. Nel medesimo lasso di tempo, il principale indice di borsa americano ha registrato un incremento del 300%. Guardando al primo gennaio 2020, anno di inizio della pandemia di Covid, i guadagni sono stati grossomodo paragonabili.
L’oro è considerato un investimento sicuro in tempi di inflazione. Tuttavia, recentemente, le prime pagine dei giornali parlano di una diminuzione dell’inflazione. Potrebbe essere che gli investitori stiano puntando su una futura riduzione dei tassi di interesse da parte delle banche centrali per rilanciare l’economia. Questo approccio sembra però contraddittorio rispetto a quanto osservato alla fine del 2023, quando le previsioni di taglio dei tassi non sono coincise con un aumento del prezzo dell’oro.
Guardando più a lungo termine, gli USA, in un anno di ripresa economica, hanno registrato un deficit record senza precedenti storici, se non si considerano periodi di guerre mondiali o pandemie. Se si prospetta una recessione, è lecito chiedersi quale sarebbe il destino del deficit americano; per stimolare la crescita, sarebbero necessari ulteriori incentivi fiscali. Se invece non si prevede una recessione, o forse solo un lieve rallentamento, emerge il dubbio su quale sarebbe stata la performance economica americana negli ultimi due anni senza tali deficit; o quale impatto avrebbe una politica di consolidamento fiscale, magari iniziando dalla gestione dei debiti.
Diventa evidente, considerando anche i costi dell’invecchiamento della popolazione, che non si prevede un ritorno alla normalità per il deficit americano nel lungo termine. Questo comporta almeno due conseguenze: la prima è la pressione sulla banca centrale per supportare un debito crescente e ridurne il costo per il governo; la seconda è la svalutazione del dollaro e maggiori difficoltà nel contenere l’inflazione.
È possibile che le recenti dinamiche del prezzo dell’oro siano correlate a questi fattori; gli investitori, alla vigilia delle elezioni di novembre, si rendono conto che nessuno dei due candidati possiede una soluzione chiara per affrontare gli squilibri finanziari del governo americano e agiscono come se si trovassero di fronte a un paese in via di sviluppo.
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Alessandro Conti ha conseguito una laurea in ingegneria finanziaria presso il Politecnico di Torino, con una specializzazione in tecnologie finanziarie. Ha lavorato come consulente per diverse start-up fintech e istituzioni bancarie. La sua specializzazione riguarda la regolamentazione dei servizi di pagamento e l’implementazione di soluzioni conformi alle nuove normative europee, in particolare PSD2. Su ComplianceJournal.it, Alessandro condivide le sue conoscenze sulla digitalizzazione dei servizi finanziari e sui rischi emergenti legati alle innovazioni tecnologiche nel settore bancario.