Nell’ultima intervista rilasciata a Bloomberg, l’AD di Leonardo, Cingolani, ha espresso che ci troviamo “quasi in un’economia di guerra”, evidenziando il coinvolgimento diretto delle industrie della difesa. Durante l’intervista sono stati discussi anche i piani di spesa del governo italiano e dell’Europa, che ammontano a decine e centinaia di miliardi di euro.
Settimana scorsa, il CEO di Rheinmetall, leader tedesco nel settore della difesa, ha chiarito in una conference call i risultati aziendali. Papperger ha informato gli investitori che il Segretario Generale della NATO, Rutte, ha sollecitato gli stati membri a incrementare le spese per la difesa al 3,5% del PIL. Per la Germania, questo si tradurrà in una spesa annuale di 150 miliardi di euro.
Interpellato sulla tempistica di tale aumento, Papperger ha risposto che avverrà prima del 2030, poiché “dobbiamo essere pronti per il combattimento nel 2028, 2029”. L’AD ha poi sottolineato che nelle quotidiane discussioni con il governo tedesco prevale un unico imperativo: “Agire rapidamente, produrre, schierare”.
Questa imminente “economia di guerra” è qualcosa che gli investitori hanno già notato da diversi trimestri, come dimostrato dalle performance delle principali aziende del settore. Si profila un panorama dove il governo, con risorse finanziarie dell’ordine di centinaia di miliardi di euro e in grande fretta, rappresenta il cliente ideale: pagamenti sicuri e margini elevati. Potrebbe sembrare che la difesa sia “benefica per l’economia”; in realtà, è essenziale per rivitalizzare l’economia europea.
Il Presidente della Fed, Powell, ha recentemente avvertito che i miliardi destinati alla difesa dovranno essere inseriti nei bilanci pubblici in un contesto di tassi strutturalmente più alti. Questa è una sfida che i governi avranno difficoltà a superare senza una certa ottimizzazione delle spese pubbliche.
Ma questa è solo una parte del problema. Le risorse umane e materiali necessarie per sostenere lo sforzo bellico sono limitate, specialmente considerando un orizzonte temporale così ristretto. Ci troviamo di fronte a un cliente che poche industrie possono competere per l’acquisto di acciaio, motori o l’assunzione di operai. La limitatezza di queste risorse significa meno disponibilità e costi più elevati per tutti gli altri.
Questo è l’altro lato dell’economia di guerra, un aspetto del quale non si discute abbastanza. Molti operai saranno assunti, direttamente o indirettamente, dal governo, ma i prodotti di prima necessità, in proporzione al reddito, costeranno inevitabilmente di più.
Ci sono settori, come quello finanziario, che hanno già compreso le implicazioni dell’economia di guerra sul mercato azionario. C’è poi un altro settore, quello che finora ha sognato la spesa, il “rilancio” e gli aumenti di borsa, che è influenzato in modo particolare; non è certamente il settore dell’investitore che monitora i grafici di borsa e aggiorna i saldi dei conti correnti. È il settore dell'”economia di guerra”, ed è tutt’altro che piacevole.
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Alessandro Conti ha conseguito una laurea in ingegneria finanziaria presso il Politecnico di Torino, con una specializzazione in tecnologie finanziarie. Ha lavorato come consulente per diverse start-up fintech e istituzioni bancarie. La sua specializzazione riguarda la regolamentazione dei servizi di pagamento e l’implementazione di soluzioni conformi alle nuove normative europee, in particolare PSD2. Su ComplianceJournal.it, Alessandro condivide le sue conoscenze sulla digitalizzazione dei servizi finanziari e sui rischi emergenti legati alle innovazioni tecnologiche nel settore bancario.