La multinazionale tedesca del settore difensivo Rheinmetall sta considerando di acquistare alcune fabbriche di Volkswagen destinate alla chiusura. Negli ultimi due anni, il valore delle azioni di Volkswagen è crollato del 50%, mentre quello di Rheinmetall è cresciuto di sette volte.
Il comparto automobilistico europeo sta attraversando una crisi strutturale a causa delle direttive della Commissione Europea, che hanno obbligato il settore a trascurare i motori a combustione interna, suo tradizionale vantaggio competitivo, per orientarsi verso la produzione di veicoli elettrici, nonostante le rigide regolamentazioni e le pesanti sanzioni. L’Europa non ha il controllo sulle catene di approvvigionamento dei motori elettrici e rimane indietro rispetto ai concorrenti cinesi di almeno un decennio, affrontando inoltre gravi problemi nei suoi mercati elettrici, caratterizzati da un’eccessiva domanda e da un’insufficiente offerta di energia programmabile, l’unica considerata realmente preziosa.
Un altro aspetto preoccupante è l’aumento dei salari reali e del costo medio delle automobili. Al contrario, il settore della difesa in Europa sta vivendo un periodo d’oro, grazie ai piani di riarmo annunciati dai governi, che prevedono investimenti miliardari pluriennali. Per le aziende, questa è una situazione ideale: clienti benestanti, ordini a lungo termine, poca attenzione ai costi e grande enfasi sulla rapidità, il che garantisce profitti sicuri.
Le discussioni tra Rheinmetall e Volkswagen simboleggiano una nuova “visione” che sembra risolvere molti problemi. Non c’è futuro per l’automobile europea entro le restrizioni imposte dalla Commissione, ma persiste l’importanza di un settore che ha un impatto significativo sull’occupazione e rimane fondamentale per l’industria. Il settore della “difesa” si presenta come un salvatore, beneficiando il PIL, l’economia, gli ingegneri e gli operai, proteggendoli dalla minaccia della disoccupazione. Lo fa con stile, poiché gli investimenti in difesa sono protetti da guerre commerciali e da difficoltà nel trovare accordi con partner, alleati o avversari.
Si sospetta fortemente che questa trasformazione abbia un fascino irresistibile per le élite europee, che altrimenti dovrebbero giustificare due scelte fondamentali della strategia economica dell’Unione. La prima è stata quella di adottare un modello basato sull’esportazione, comprimendo i salari e la domanda interna, limitando gli investimenti. La Germania è stata il modello da seguire, ma ora l’Europa si rende conto di essere troppo dipendente dalla domanda esterna, molto più di quanto non lo fosse prima del 2010. Questo la rende estremamente vulnerabile nelle guerre commerciali, e ciò che si guadagna in bilancia commerciale si perde in potere d’acquisto, salari e indipendenza.
La seconda scelta è stata quella di una transizione energetica ideologica, con la Germania che ha deciso di chiudere i propri reattori nucleari tra il 2021 e il 2023, proprio mentre scoppiava la guerra in Ucraina, dopo aver investito centinaia di miliardi in energie rinnovabili, oltre 500 miliardi stimati, senza una soluzione all’orizzonte né per la produzione di idrogeno a condizioni economiche né per le batterie. Anche l’Italia ha contribuito, con incentivi alle rinnovabili negli ultimi vent’anni per un totale di circa 150 miliardi di euro, a cui si aggiungono gli investimenti per adeguare le reti. Con questi fondi, in Italia, si sarebbero potute costruire tra cinque e dieci nuove centrali nucleari, coprendo il 20% della domanda elettrica nazionale.
In Italia, inoltre, sono stati imposti divieti su qualsiasi nuova trivellazione di gas nazionale, con conseguenze devastanti per la competitività europea. La guerra, quindi, non è solo un grande business, ma in Europa assume un significato ulteriore. Permette di cancellare tre decenni di scelte insensate, salvando coloro che dovrebbero fornire spiegazioni e offrendo loro un’opportunità unica. Non solo di evitare di pagare il conto politico, ma di presentarsi come salvatori della patria e dell’economia, garantendo posti di lavoro sicuri e ben retribuiti, senza dover spiegare le conseguenze per la vita quotidiana delle famiglie, gravate da un debito che non verrà estinto con utilitarie o case, ma con carri armati e cannoni.
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Alessandro Conti ha conseguito una laurea in ingegneria finanziaria presso il Politecnico di Torino, con una specializzazione in tecnologie finanziarie. Ha lavorato come consulente per diverse start-up fintech e istituzioni bancarie. La sua specializzazione riguarda la regolamentazione dei servizi di pagamento e l’implementazione di soluzioni conformi alle nuove normative europee, in particolare PSD2. Su ComplianceJournal.it, Alessandro condivide le sue conoscenze sulla digitalizzazione dei servizi finanziari e sui rischi emergenti legati alle innovazioni tecnologiche nel settore bancario.