ALLARME INFLAZIONE USA: Scopri Cosa Si Nasconde Dietro gli Ultimi Dati!

Ieri è stata annunciata l’escalation dell’inflazione negli USA per il mese di giugno, che ha registrato un incremento rispetto al mese precedente.

Nel mese di giugno, il tasso di inflazione negli Stati Uniti è aumentato al 2,7%, superando le previsioni che erano del 2,6%, e rispetto al 2,4% di maggio. I dati, escludendo le componenti più instabili come l’energia e gli alimenti, si sono attestati al 2,9%, in linea con le aspettative e leggermente superiori rispetto al 2,8% di maggio.

Donald Trump, attraverso il social network “Truth”, ha commentato il dato sull’inflazione richiedendo nuovamente una riduzione dei tassi di interesse, sostenendo che l’inflazione “è bassa” e che i tagli ai tassi potrebbero permettere al governo americano di risparmiare “un trilione di dollari all’anno”. Gli investitori, tuttavia, hanno reagito in modo opposto; il rendimento dei titoli decennali è aumentato e si è ridotta la probabilità di un taglio dei tassi a settembre.



Il mercato ha interpretato il dato di ieri come un rischio di aumento dei prezzi, mostrando una certa sfiducia verso la cautela di Powell, che finora ha esitato nel ridurre i tassi. Escludendo i costi delle automobili, i prezzi dei beni hanno mostrato l’aumento mensile più marcato dal novembre 2021. Gli investitori hanno quindi visto gli aumenti nei prezzi dell’elettronica e dell’abbigliamento come i primi effetti dei dazi doganali.



Nei mesi a venire, con i distributori che aumentano progressivamente i prezzi e con nuovi rialzi dei dazi, il problema potrebbe aggravarsi. Indipendentemente dalle smentite che seguono gli annunci, intanto i flussi di merci subiscono interruzioni, i produttori riducono la capacità produttiva per proteggersi dalla volatilità della domanda, e di conseguenza i prezzi aumentano.

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I dati di ieri non evidenziano solo le conseguenze della guerra commerciale, ma anche una diminuzione della propensione al consumo da parte delle famiglie americane. Si osserva un rallentamento nei prezzi di alcuni beni non essenziali, come i biglietti aerei o le automobili; più in generale, l’aumento dei prezzi dei beni è parzialmente compensato da una crescita minore dei prezzi dei servizi, il che suggerisce un rallentamento economico già in corso o imminente, poiché i consumatori, preoccupati per l’incertezza economica, posticipano gli acquisti.



Se la guerra commerciale persiste e i distributori hanno posticipato quanto più possibile gli aumenti dei prezzi, questa tendenza potrebbe continuare e intensificarsi. Emergerebbe quindi lo scenario di una possibile stagflazione, che giustifica la cautela della Fed nel posticipare quanto più possibile i tagli. È una strategia per prevenire un’altra ondata inflazionistica finché l’economia resiste.

L’ultimo dato sull’inflazione solleva inoltre una questione che non può essere ignorata dalla politica. Il dato aggregato potrebbe far dimenticare che l’aumento dei prezzi non è uniforme. Le fasce di reddito più basse, che acquistano biglietti aerei meno frequentemente della media e non cambiano auto a meno che non sia strettamente necessario, non beneficiano di una diminuzione del tasso di inflazione attraverso queste voci di spesa. Piuttosto, sono le spese essenziali e inevitabili come l’abbigliamento a basso costo, fortemente influenzato dai dazi e dove i distributori hanno margini di manovra limitati, a pesare di più. Questa dinamica rende i tagli alla spesa sociale ancora più gravosi.

Le preoccupazioni dei mercati riguardo al deficit e al debito americani rimangono se il trend osservato ieri dovesse proseguire. Se la politica monetaria della Fed dovesse cambiare, forse a seguito di una sostituzione di Powell, i mercati richiederebbero rendimenti più elevati per proteggersi dall’inflazione. Una recessione potrebbe alterare la situazione, ma a quel punto sarebbe inevitabile interrogarsi sulla direzione del deficit americano, già oltre il 6% con un PIL in crescita.

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