In Italia, l’interesse per le notizie economiche è limitato e pochi sono in grado di comprendere le argomentazioni degli economisti o i commenti spesso confusi provenienti dalle televisioni, che riportano notizie da Francoforte e Bruxelles. Quando si parla di tassi di interesse, spread e molti altri termini tecnici in lingua inglese (che possiedono equivalenti perfetti in italiano, ma usarli in inglese sembra più trendy), molti spettatori si sentono disorientati e cambiano canale. Tuttavia, ci rendiamo conto che qualcosa non va e che le persone hanno ragione di sentirsi ingannate, vivendo sotto una sorta di “cupola” finanziaria che regola le nostre vite, struttura il mondo (soprattutto quello occidentale e europeo) e stabilisce i prezzi di tutto, dalla medicinali all’energia, dai mutui al futuro dei nostri risparmi. Questo perché non esiste più un’Europa delle persone o dei cittadini, ma prevale un’Europa controllata dai banchieri, a cui anche i leader nazionali devono sottomettersi per non rischiare di affondare insieme ai loro paesi se criticano troppo questo sistema.
Nella delicata questione dell’euro (che ha certamente portato grandi benefici in termini di stabilità, non dobbiamo dimenticarlo), coloro che hanno distribuito le carte all’inizio (ai tempi dell’Italia di Prodi) hanno sottovalutato la nostra lira nel passaggio all’euro, anche se eravamo già in una situazione economica precaria.
In definitiva, l’Italia rappresenta il 14% dell’Europa, ma ha un peso molto inferiore in ambito finanziario, sia perché siamo ai margini delle decisioni, sia perché ci viene costantemente ricordato che siamo debitori quasi insolventi e che di fatto ci indebitiamo ulteriormente per coprire i debiti preesistenti.
Questa lunga introduzione serve a evidenziare quanto sia complicato contrastare con forza le decisioni della Banca Centrale Europea che sul proprio sito afferma che il suo compito principale è “mantenere la stabilità dei prezzi, favorendo così la crescita e l’occupazione”.
Recentemente, ad esempio, la BCE ha abbassato i tassi di interesse dello 0,25% per “raffreddare” il costo del denaro, ridurre l’inflazione e teoricamente stimolare l’economia. Qualsiasi studente di economia dovrebbe domandarsi come mai l’inflazione, che cinque anni fa era praticamente inesistente, sia improvvisamente impennata. Una delle risposte riguarda la guerra in Ucraina, con l’Europa che ha deciso di non avere più rapporti e forniture energetiche ufficiali con la Russia in un momento in cui – a causa del Covid – si registrava già un deficit e una generale debolezza economica.
Con l’aumento dell’inflazione (non dovuta a carenza di beni sul mercato, ma ai maggiori costi di produzione), la politica della BCE è stata quella di aumentare rapidamente i tassi, seguendo l’esempio della Fed americana. Di conseguenza, le banche – che continuavano a offrire interessi bassi o nulli ai loro clienti sui depositi – hanno visto aumentare notevolmente il costo del denaro prestato (che era comunque dei clienti), guadagnando cifre enormi a scapito dei clienti stessi.
Un vero e proprio paradiso, ma che ha messo in crisi le aziende che avevano fatto investimenti e che con l’aumento dei tassi non erano più in grado di pagare i debiti, generando così anche la crisi europea, in particolare quella tedesca.
Con la riduzione dei consumi e quindi dell’inflazione, che ora è tornata ai livelli di cinque anni fa, ci si aspetterebbe che anche i tassi bancari fossero diminuiti allo stesso modo, ma non è così: i tassi sono scesi di poco, permettendo alle banche di continuare a godere di quegli extraprofitti mentre le imprese produttive subiscono la crisi.
L’anno scorso, il governo Meloni ha proposto di tassare questi mega-profitti, sui quali le banche non avevano alcun merito operativo, ma la proposta è stata vanificata dal ricatto messo in atto dalla grande finanza: “Se mi fai pagare di più, ti taglio le gambe con l’informazione che controllo”, con la BCE che non vuole privarsi delle uova d’oro del nido dei suoi soci-clienti.
Oggi, quindi, l’inflazione è inferiore al 2%, ma il tasso minimo per il denaro a prestito è superiore al 5%, con punte molto più elevate, e il noto “prestito al consumo” di banche e finanziarie-strozzine varie che arriva ben oltre il 15%. È una vergogna, ma che non sembra turbare più di tanto la BCE.
Se i tassi fossero tornati ai livelli del 2020, a beneficiarne non sarebbero solo gli imprenditori, che potrebbero così investire di nuovo, ma anche i governi, poiché la riduzione del costo del denaro sul debito pubblico pregresso permetterebbe di risparmiare enormi somme, ridurre il bisogno di nuovi prestiti, tagliare le tasse o aumentare gli interventi e/o la spesa sociale.
Ma si preferisce far guadagnare cifre astronomiche a banche, colossi farmaceutici, compagnie petrolifere e simili. Davvero una brutta situazione…
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Alessandro Conti ha conseguito una laurea in ingegneria finanziaria presso il Politecnico di Torino, con una specializzazione in tecnologie finanziarie. Ha lavorato come consulente per diverse start-up fintech e istituzioni bancarie. La sua specializzazione riguarda la regolamentazione dei servizi di pagamento e l’implementazione di soluzioni conformi alle nuove normative europee, in particolare PSD2. Su ComplianceJournal.it, Alessandro condivide le sue conoscenze sulla digitalizzazione dei servizi finanziari e sui rischi emergenti legati alle innovazioni tecnologiche nel settore bancario.