A cura dell’Avvocato Guido Sola

Riprendendo quanto detto nella prima parte di questo articolo, non deve allora stupire che, laddove un lavoratore contragga l’infezione da virus Covid-19 sul luogo di lavoro, il datore di lavoro – nella propria qualità di garante ex lege della salute e della sicurezza dei prestatori di lavoroben possa essere indagato, in sede investigativa preliminare, per violazione degli artt. 590 [lesioni personali colpose] o 589 [omicidio colposo] c.p. – qui aggravati dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Va, tuttavia, osservato, in proposito, che, per poter essere (imputati e) condannati in sede penale per violazione degli artt. 590 [lesioni personali colpose] o 589 [omicidio colposo] c.p., devono sussistere  la  colpevolezza – colpevolezza che, nel caso di specie, si tradurrebbe in colpa; nella colpa che deriverebbe dalla mancata osservanza, ex art. 43 c.p., di leggi e di regolamenti e, più precisamente, delle disposizioni normative anti-contagio supra richiamate – e il nesso causale.

Premesso, però, che, per poter essere destinatari d’imputazione in sede penale, deve in primis sussistere la  colpevolezza – colpevolezza che, nel caso di specie, si tradurrebbe in colpa; nella colpa che deriverebbe dalla mancata osservanza, ex art. 43 c.p., di leggi e di regolamenti e, più precisamente, delle disposizioni normative anti-contagio supra richiamate –, il “primo passaggio” della necessaria indagine  fattuale che verrebbe in emergenza in questi casi è rappresentato  dalla sussistenza o meno del nesso causale.

 

La responsabilità del datore di lavoro fra ambito assicurativo e penalistico

E, nel ragionare di nesso causale, occorre certamente distinguere tra schemi di matrice assicurativa – quali sono quelli propri dell’INAIL [si v., in proposito, M. Innocenzi-F. Rullo-C. Sferra-A. Ossicini (a cura di), Malattia-Infortunio, trattazione in ambito INAIL, …] – e schemi di matrice penalistica.

Ambito assicurativo

In ambito assicurativo, infatti e come detto, la Corte di cassazione – sezione lavoro – ha più volte ribadito il principio di presunzione legale d’origine professionale della malattia; nell’ambito della giurisprudenza di legittimità in materia, più precisamente, sembrerebbe essere proprio questo l’elemento concettuale da porre a base della ricostruzione del nesso causale tra attività lavorativa ed insorgenza della malattia: proprio su queste basi, in altre parole, parrebbe corretto ritenere provato il requisito richiesto dal d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, dell’occasione di lavoro.

Nell’ottica della Corte di cassazione – sezione lavoro –, insomma, al fine della prova della sussistenza del nesso causale, non è necessario individuare dettagliatamente lo specifico momento nel quale è avvenuto il contagio; in verità, non è nemmeno necessario accertare lo specifico elemento contagiante. Con la conseguenza che, per quanto riguarda l’infezione da virus Covid-19, in ambito assicurativo, basterà la prova della mera possibilità che il contagio sia avvenuto in occasione di lavoro.

Prova, questa, che, peraltro e come detto, potrà essere fornita anche ricorrendo a presunzioni semplici che, in quanto tali, gravano il datore di lavoro dell’onere di dimostrare il contrario – vale a dire dell’onere di dimostrare la natura extra-professionale del contagio – [Cass. civ., sez. lavoro, 19 luglio 1991, n. 8058; Cass. civ., sez. lavoro, 13 marzo 1992, n. 3090; Cass. civ., sez. lavoro, 27 giugno 1998, n. 6390].

Ambito penalistico

Non così per quanto riguarda l’ambito penalistico.

Qui, infatti, a venire in emergenza sono gli schemi propri della nota sentenza Franzese [Cass. pen., sez. un., 11 settembre 2002, n. 30328], pilastro portante in materia di causalità penale.

Nell’occasione, più precisamente, il quesito portato all’attenzione delle sezioni unite della Corte di cassazione concerneva il grado di probabilità alla stregua del quale si deve ricostruire il nesso causale allorquando, come nel caso di specie – nel caso delle lesioni personali colpose ovvero dell’omicidio colposo cioè –, si ragioni di reati omissivi impropri.

Ci si chiedeva, in altre parole, se, per poter ritenere causale la condotta omissiva, il comportamento doveroso in concreto omesso avrebbe dovuto evitare l’evento lesivo con un grado di probabilità vicino alla certezza ovvero ci si sarebbe potuti “accontentare” di serie ed apprezzabili possibilità di successo.

Per rispondere all’anzidetto quesito, i giudici di legittimità hanno in primis ribadito l’assoluta importanza che, nell’ambito del nostro ordinamento penale, va certamente tributata al principio condizionalistico – in base al quale è condizione necessaria dell’evento quella condotta che non può essere mentalmente eliminata senza che l’evento stesso venga meno –.

Ciò premesso, i giudici di legittimità hanno preso le distanze dalla teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento, intesa essa alla stregua di quella teoria che, nell’ottica dell’accertamento della sussistenza del nesso causale,  tende a considerare bastevole la mera possibilità che il comportamento doveroso omesso, qualora tenuto, avrebbe impedito l’evento – e, dunque, la mera constatazione che l’omissione in parola, nel caso concreto, abbia semplicemente aumentato il rischio di verificazione dell’evento stesso –.

Ciò in quanto la teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento, pur avendo il pregio di tutelare massimamente beni giuridici quali la vita e l’incolumità individuale dei lavoratori, ridimensiona di fatto l’importanza – assoluta – che un corretto accertamento del nesso causale quanto più vicino al grado massimo di certezza ha – e deve avere – nell’ambito d’un ordinamento costruito a partire dalla personalità della responsabilità penale e dalla presunzione di non colpevolezza  ex art. 27 Cost.

Nel valorizzare il principio condizionalistico, insomma, i giudici di legittimità hanno ribadito la necessità che le leggi di copertura scientifiche trovino materiale riscontro nei casi concretamente oggetto d’accertamento tramite un attento raffronto con i dati probatori e l’esclusione di fattori causali alternativi; hanno ribadito, in pratica, la necessità di rifuggire da qualsivoglia generalizzazione e/o astrazione.

Differenze fra i due ambiti

Così impostata la questione, sembra allora corretto ritenere che, a differenza di quanto accade in ambito assicurativo, in ambito penale, per (imputare e) condannare il datore di lavoro per violazione degli artt. 590 [lesioni personali colpose] o 589 [omicidio colposo] c.p., non si possa ricorrere a presunzioni, né si possano porre in essere accertamenti basati sulla mera possibilitàche il comportamento doveroso omesso, qualora tenuto, avrebbe impedito l’evento

Sembra allora corretto ritenere, insomma, che, laddove si registrino casi di infezione da virus Covid-19 sul luogo di lavoro, in vista dell’affermazione della responsabilità penale del datore di lavoro, non si possa prescindere da un rigoroso accertamento in concreto in grado d’escludere che, nel caso di specie, sussistano fattori causali alternativi – leggasi: in grado d’escludere che, nel caso di specie, l’infezione sia  avvenuta altrove, vale a dire in altri ambiti della vita quotidiana del lavoratore –.

In ambito penale, infatti, la circostanza che il lavoratore risulti adibito a mansioni che lo espongano per tempi prolungati a rischio d’infezione ovvero a mansioni che comportino contatto con il pubblico contrassegnerà un mero elemento probatorio, in quanto tale suscettibile di confronto con gli altri e sempre e comunque soggetto a prudente apprezzamento motivazionale da parte del giudice.

Nel concludere, volendo ricomporre il quadro del recente – e ancora attuale – dibattito (anche) politico, possiamo allora dire che il vero problema, in subiecta materia qui giunti, è diventato quello di distinguere tra procedimento penale e processo penale:

  • un conto, infatti, sono le indagini preliminari – figlie del procedimento penale – che s’aprirebbero laddove un lavoratore-dipendente dovesse contrarre l’infezione da virus Covid-19 in occasione di lavoro – e che non potrebbero non aprirsi, essendo doveroso che il pubblico ministero verifichi se, per avventura, vi sono state negligenze proprie del datore di lavoro in punto di scrupolosa osservanza degli obblighi specifici di prevenzione imposti da Governo, parti sociali e INAIL –;
  • altro conto è il processo penale che, per converso e come chiarito, proprio in queste ore, anche dall’INAIL e dallo stesso Ministro del Lavoro, non s’aprirebbe ove, all’esito delle anzidette indagini preliminari, non essendovi state negligenze proprie del datore di lavoro in materia, il pubblico ministero, ritenendo infondata la notizia di reato, ne chiedesse l’immediata archiviazione da parte del giudice per le indagini preliminari.

Guido Sola

Avvocato

Guido Sola è avvocato in Modena ed esperto di modelli di organizzazione e gestione, patrocinante in Cassazione. Si è laureato in giurisprudenza presso l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Scienze Penalistiche presso l’Università degli studi di Trieste. È stato professore a contratto dell’Università di Modena e Reggio Emilia e Assegnista di Ricerca presso l’Università degli studi di Roma-La Sapienza. Cultore della materia (diritto processuale penale), ha all’attivo numerose pubblicazioni in materia di diritto processuale penale e di modelli organizzativi e gestionali ex d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, partecipazioni a seminari di formazione, lezioni e convegni in qualità di relatore.